Titolo:Dalla grande Moschea ai tapestry. Innovazione e sperimentazione in Džamonja

Data:19.05.2020

Testo:Anna Romanin

Multimediali:

Dalla grande Moschea ai tapestry. Innovazione e sperimentazione in Džamonja

DUŠAN DŽAMONJA, Iron Tapestry, 1967, ferro e legno

Ci siamo incontrati a Trieste nel 2004 presentati da un amico comune. Džamonja era all’apice del successo, a suo agio nella città di frontiera e soddisfatto di quella mostra antologica. Lo conoscevamo bene come artista e ci aveva da sempre colpiti. In quell’occasione abbiamo potuto conoscerlo anche come uomo, ed era un uomo tutto d’un pezzo: nell’atteggiamento, nelle parole, nelle opere, esprimeva tutta la sua grandezza. Impossibile non restarne impressionati.

Massimo Copetti

Il modellino della moschea di Bagdad, The Big Mosque del 1985 è uno dei pezzi più originali della raccolta che Copetti Antiquari mettono a disposizione dei collezionisti e degli appassionati d’arte. È un’opera di Dušan Džamonja (1928 – 2009), artista di respiro e fama internazionale, le cui opere sono esposte alla Peggy Guggenheim Collection di Venezia, alla Tate Modern di Londra, al MoMA di New York, ma poco si trova nel mercato dell’arte.  The Big Mosque proviene dalla collezione degli eredi dell’artista. È una scultura in legno fossile, materiale già di per sé esclusivo: si forma per una coincidenza di fattori e tra le mani dell’uomo acquista il valore della sua creatività.

Džamonja è uno sperimentatore ed un innovatore, ci ha lasciato disegni, sculture, opere monumentali. È sperimentatore quando usa materiali tradizionali in modi nuovi: il cemento, meno costoso nel difficile dopoguerra e più adatto ai suoi scopi, il metallo, vetro, legno, chiodi, reti, combinati con bronzo, corten, alluminio, acciaio. Innovatore quando studia luce e spazi vuoti nel rapporto tra interno ed esterno dell’opera d’arte, in particolare nelle architetture. The big Mosque è un modellino in scala di un’enorme moschea che non fu mai realizzata a Bagdad, a causa della crisi Iran – Iraq negli anni Ottanta del secolo scorso. Quello della moschea è un tema che ritorna: il modellino ricorda il grandioso Centro Islamico di Fiume che porta la sua firma, insieme a quella degli architetti Darko Vlahovic e Branko Vucinovic. La moschea di Fiume, iniziata nel 2009, è la terza in Croazia ed è considerata la più bella d’Europa. Finanziata dai fedeli musulmani croati e in parte dall’emiro del Qatar, ha 5.291 metri quadrati complessivi, fontane, una piazza in travertino che ha “il colore della sabbia del deserto”, un minareto di 23 metri e sei cupole monumentali.

L’architettura per Džamonja si esprime molto nei monumenti commemorativi dedicati a tutte le vittime delle guerre senza distinzioni: sul monte Kozara in Bosnia- Erzegovina, a Zagabria, a Šid in Serbia, l’Ossario di Barletta in Italia, i monumenti per i campi di Dachau e Auschwitz. Le guerre le ha vissute e lo hanno toccato profondamente, lui che, nato in Macedonia da una famiglia di origini erzegovesi, mescolava su di sé etnie e popoli. Džamonja vive nella nella Croazia del dopoguerra (Zagabria e Vrsrar), vince molti concorsi pubblici e attraverso l’architettura esprime il valore e il compito pubblico dell’arte. «Un monumento deve avere uno scopo, ed è per questo che personalmente amo il Memoriale: deve servire affinché non si dimentichi e quanto raccontato non accada più.»(*)

Džamonja, fu anche scultore di peso. Le prime sculture in legno erano figurative, poi si spostò verso la semplificazione delle forme e l’astrazione, anche per l’influenza del lavoro di Henry Moore, che a sua volta nutriva grande interesse per la sua arte. Verso la fine degli ani Sessanta l’evoluzione artistica lo porta verso i tapestry, tappezzerie in filo metallico e altri materiali, che sono la cifra stilistica più conosciuta di Džamonja. Con i tapestry, di cui i Copetti ne posseggono uno del 1967, egli raggiunge importanti musei internazionali.

Dopo aver realizzato l’anima della scultura in legno, la ricopriva con chiodi di ferro ben piantati; infine alla struttura interna veniva dato fuoco affinché rimanesse solo il “guscio” esterno di inserti metallici. Opere come questa resero Džamonja un innovatore per la sua capacità di valutare luce e spazi vuoti nel rapporto tra interno ed esterno dell’opera d’arte.

Iron Tapestry, 1967, non ha nome ma una sigla; il termine tappezzeria lo usa lo stesso artista parlando di un’opera del 1977 del museo di Jasenovac «realizzata con tronchi di legno, disposti orizzontalmente e intrecciati su di un piano, tipo una tappezzeria, di catene di ferro.» (*) Le catene ricordano quelle dei soldati, il legno le loro ossa. L’arte non è mai disgiunta dal reale e dalla storia.

Iron Tapestry fu portato dai Copetti alla 42esima Fiera Internazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Bologna nel 2018 (qui il video). Altre opere di Dušan Džamonja si possono vedere nel Parco Sculture Braida Copetti, nel parco sculture alle porte di Orsera voluto dallo stesso artista e ora gestito dal figlio Fedor, e in prestigiose collezioni. Dalla prima Biennale Internazionale d’Arte di Venezia del 1960 che gli diede notorietà (l’opera esposta a Venezia fu poi portata al MoMA), il percorso per Džamonja fu inarrestabile. Partecipò a quattro Biennali, prese parte a mostre personali e collettive, vinse premi e riconoscimenti; le sue opere sono conservate in collezioni museali in tutto il mondo e le sue interviste sono così interessanti che vale davvero la pena conoscerlo anche come uomo.